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21 settembre 1990: l’omicidio del giudice Rosario Livatino

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Era nato a Canicattì in provincia di Agrigento, il 3 ottobre del 1952 il giudice Rosario Livatino ed aveva solo 38 anni quando un commando, formato da quattro killer, lo affiancò a bordo di un’altra auto lungo la strada statale 640, che da Agrigento porta a Caltanissetta, facendolo sbandare. Il giudice era alla guida della sua Ford Fiesta amaranto. Ferito ad una spalla, Livatino tentò di fuggire tra i campi, ma venne raggiunto e freddato con un colpo di pistola al volto.

Era la mattina del 21 settembre del 1990 e, come sempre, il giovane magistrato stava andando al lavoro al tribunale di Agrigento, viaggiava da solo, aveva rifiutato la scorta. Livatino, studente brillante, si era laureato a Palermo, in Giurisprudenza, a soli 22 anni seguendo le orme del padre Vincenzo.

Dopo aver vinto il concorso, ad appena 26 anni, nel 1978 Livatino entra in magistratura. Dal 1979 al 1989 lavora come sostituto procuratore ad Agrigento, occupandosi di indagini delicate sulla mafia, ma anche sulla criminalità comune. Diverse le intuizioni brillanti che ebbe nel corso della sua carriera e che diedero il via ad importanti indagini in Sicilia: nel 1982 la Procura di Agrigento avviò le indagini sul racket delle false fatture che videro coinvolti gli allora noti Cavalieri del Lavoro di Catania, definiti da Pippo Fava (ucciso nel 1984) i “Cavalieri dell’Apocalisse”, un gruppo ristretto di potenti imprenditori all’epoca e per diversi anni al centro di delicate inchieste giudiziarie, poi prosciolti; in seguito le sue indagine saranno ricordate come la “tangentopoli siciliana. Un calderone di appalti pubblici in cui sarebbero stati coinvolti politici, imprenditori e mafiosi. Rosario Livatino fu il primo, insieme ad altri colleghi, ad interrogare un ministro dello Stato nell’ambito delle sue inchieste per mafia. Dall’agosto del 1989 al settembre del 1990 lavorò come giudice a latere al tribunale di Agrigento nella speciale sezione delle misure di prevenzione occupandosi di sequestri e confische, infliggendo svariati e duri colpi alla criminalità organizzata.

Pochi gli interventi pubblici del magistrato che, se pure sostenesse l’importanza il ruolo della magistratura nel dibattitto sociale, non amava i protagonismi e la sovraesposizione mediatica, una scelta precisa questa. Meritano comunque citazioni alcuni degli interventi che fece: il ruolo del giudice in una società che cambia (7 aprile ’84 presso Rotary Club di Canicattì), in cui confermava l’importanza del ruolo indipendente della magistratura e del magistrato: «L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrificio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività»; ed anche l’intervento su fede e diritto il 30 aprile ’86 nel salone delle suore vocazioniste, in cui parlò del legame tra la sfera fideistica ed il momento giuridico. Due aspetti che potrebbero sembrare distinti ed indipendenti, ma che in realtà sono connessi tra loro in un continuo e necessario confronto.

Rosario Livatino è stato ucciso perché, stando alla sentenza che ha portato alla condanna di esecutori e mandanti, «perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia».

Importante ricordare, tra le reazioni successive all’omicidio, le parole di Papa Giovanni Paolo II che lo definì come un martire della giustizia, ed indirettamente anche della fede, nel celebre discorso che tenne ad Agrigento, nella Valle dei templi oltre 20 anni dopo l’omicidio. In quell’occasione il Papa condannò fortemente i mafiosi invitandoli a pentirsi e convertirsi. Proprio come recentemente detto da Papa Francesco durante la sua visita a Palermo (in occasione della ricorrenza di un’altra vittima di mafia, il Beato Padre Pino Puglisi): “chi è cristiano non può essere mafioso”.

Nel 2011 è iniziato il percorso di beatificazione di Rosario Livatino, uomo di indubbia e profonda fede (in fondo alle sue agende, gli inquirenti che indagavano sulla sua morte trovarono sempre la sigla “s.t.d.” il significato era sub tutela dei, nelle mani di Dio). Chissà in che percentuale anche questo aspetto del giudice non abbia contribuito a spingere uno dei killer, Puzzangaro, a pentirsi e chiedere ufficialmente perdono alla famiglia del giudice.

Esecutori incastrati, grazie anche al supertestimone Pietro Ivano Nava, e condannati all’ergastolo furono: Paolo Amico, Domenico Pace, Giovanni Avarello e Gaetano Puzzangaro. Successivamente furono condannati, anch’essi all’ergastolo, Antonio Gallea e Salvatore Calafato quali mandanti dell’omicidio. Rimane però oscuro il contesto in cui è maturata la decisione di eliminare il giudice. Il commando che ha agito apparteneva ad un’organizzazione che era soprannominata “stidda”: un’associazione mafiosa che, secondo i magistrati, andava in quegli anni a contrapporsi a Cosa Nostra.

Una nota merita di certo Pietro Nava che, trovandosi sulla stessa strada che fu scena del delitto Livatino, vede con i propri occhi quanto accade e, senza esitare, si reca presso le Autorità a denunciare il fatto, da quel momento purtroppo per lui si aprono una serie di spiacevoli eventi che, invece di tutelarlo ed elogiarlo quale esempio di legalità e senso civico, lo vedono vittima di eventi che stravolgeranno profondamente la sua vita. Ricordiamo che in quell’anno non esisteva l’attuale normativa di tutela dei testimoni. Dopo appena un mese dall’omicidio viene licenziato dall’azienda per cui fa l’agente di commercio ed è inoltre costretto a trasferirsi a vivere in località segreta sotto altro nome, dimenticando per sempre la sua normale vita fino a quel fatidico 21 settembre ‘90. Nava non ha mai rinnegato quella scelta coraggiosa ed importante per le indagini, ha però sottolineato quanto sia difficile vivere da persona normale nel nostro Paese, riferendosi alla testimonianza resa in quanto atto doveroso di ogni cittadino, (ndr).

Come già ricordato da un parente del giudice Livatino, egli era una persona delicata e come tale trattava le persone, uomo riservato ma non schivo. Un amore profondo per i suoi genitori, che influì anche nella scelta di restare ad Agrigento, dove appunto la famiglia d’origine viveva. Amante di cinema e lettore accanito, Livatino era una persona discreta che amava scrivere in modo fitto nelle sue tante agendine. Rifiutò la scorta per svariati motivi – continua il parente nel suo racconto – non volle far correre rischi ad altri uomini, già consapevole del rischio che egli correva, ma anche, probabilmente, per tutelare la sua privacy ed essere coerente col suo stile riservato di vita.

Rosario Livatino ha scelto fin dal principio la sua carriera senza mai vacillare, forse, grazie al suo desiderio di giustizia nel servire lo Stato. Vogliamo ricordarlo citando una sua frase che ne descrive ampiamente lo spessore morale: “quando moriremo, nessuno verrà a chiederci quanto siamo stati credenti, ma quanto siamo stai credibili”.

Mauro Faso

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