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Schiavitù moderna

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Il 2 dicembre si è  celebrata la giornata mondiale per l’abolizione della schiavitù. In questo giorno, nel 1949, l’Assemblea generale dell’Onu approvò la Convenzione che voleva reprimere il traffico di esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione.

A quasi 70 anni da allora,  sono ancora 40 milioni gli schiavi moderni, un affare da 354 miliardi di dollari. A confermarlo sono i dai riportati nel  Global Slavery Index 2018 preparato da Walk Free Foundation, un  Think Tank australiano , con l’Organizzazione internazionale del lavoro e l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Me è possibile? Eppure , secondo alcuni teorici, la schiavitù sarebbe stata abolita nel 1981quandmla Mauritania è stato l’ultimo paese a mettere al bando la schiavitù con una legge ad hoc. Invece, solo qualche mese fa, la CNN metteva  in onda un video che mostrava la vendita all’asta di 12 migranti nigeriani da “utilizzare come manovalanza” per lavori agricoli.

Chi sono gli schiavi “moderni”? Uomini, donne e bambini costretti a lavorare in condizioni di coercizione e minaccia per produrre gli abiti,  i cellulari,  i computer emoltissim altri oggetti di uso comune o i prodotti alimentari che spesso finiscono nei supermercati e da lì sulle tavole dei consumatori dei paesi più sviluppati.

A loro si aggiungono un numero impressionante di bambine  costrette a sposarsi contro la loro volontà e fornire lavoro sotto il pretesto del  “matrimonio”, nei campi sotto il ricato dei  “caporali”, nei negozie e nei cantieri privati  dei diritti più basilari. E’ questo lo scenario  globale tradotto in numeri dal GSI2018.

Una forma di schiavitù che nessun accordo internazionale e nessuna legge  sono riusciti ad estirpare. Un crimine  che ha radici che si estendono a qusi tutti i paesi del pianeta,  anche quelli  più ricchi e sviluppati. L’immagine impietosa del GSI2018 mostrala realtà  paese per paese, partendo da quella che forse è una delle cause principali di questo fenomeno:  i flussi commerciali. I  numeri vengono poi confrontati con le misure intraprese dai  singoli paesi per contrastare il fenomeno.

Il risultato non lascia dubbi sulla gravità della situazione: 40,3 milioni di  persone  vivono in condizioni di moderna schiavitù d cui 24,9 milioni  costrette a lavorare contro la loro volontà, sotto minaccia e altre, 15,4  prigioniere di un matrimonio forzato (ma il numero reale potrebbe essere molto maggiore: in molti paesi reperire informazioni attendibili sullo stato reale della schiavitù è quasi impossibile).   Negli ultimi cinque  anni, sarebbro 89 milioni le persone sottoposte ad una qualche forma di schiavitù. I numeri peggiori sono appannaggio della Corea del Nord, dove una persona su 10 vive in schiavitù moderna (e molte sono  costrette   a lavorare per  il “bene della Patria”. Non è un caso se perfino una  commissione di inchiesta ONU, la violazione dei diritti umani in Corea del Nord ha concluso che questo modo di vedere il lavoro  è diventata parte  di quel sistema politico). Numeri simili in Eritrea, dove il regime  che controlla il paese da decenni costringe i cittadini a varie forme di schiavituú  (non è un caso se l’Eritrea è  uno dei Paesi d’origine di molti migranti).  E poi il Burundi, la Repubblica Centrafricana, Afghanistan, Mauritania, Sud Sudan, Pakistan, Cambogia e Iran.

Ma casi di schiavitù modena non mancano anche  in molti paesi sviluppati come quelli che fanno parte della cerchia ristretta dei G20. Paesi come gli Stati Uniti, l’Australia, il Regno Unito, la  Francia, la Germania, i Paesi Bassi e molti altri Paesi europei tra cui anche l’Italia. In questi Paesi il rischio schiavitù riguarda gruppi sociali deboli come i migranti irregolari, i senzatetto, i lavoratori in nero e quelli della cosiddetta “gig economy”, quella dei lavori saltuari e precari.

Come emerge dal rapporto, in questi paesi esiste anche un altro rischio  schiavitù: quello legato alla compravendita dei prodotti frutto del lavoro degli schiavi moderni. Secondo i ricercatori, molti dei paesi del G20 importano  “schiavitù” racchiusa  in   beni di uso comune come i prodotti informatici e la  telefonia, e poi l’abbigliamento, il pesce e molti  prodotti agricoli,

Un giro d’affari mostruoso che  solo per i primi cinque paesi importatori di prodotti a rischio avrebbe raggiunto un volume d’affari di 354 miliardi di dollari annui. In molti di questi paesi sviluppati   – come Argentina, Australia, Canada, India, Indonesia, Giappone, Messico, Russia, Sud Africa, Arabia Saudita, Corea del Sud e Turchia – mancano leggi efficaci in grado di  limitare l’acquisto da parte di imprese private e pubbliche di beni e servizi prodotti sotto minaccia o coercizione.

In questo quadro desolante, l’Italia insieme a Cina, Brasile, Francia, Germania, Regno Unito e Stati Uniti, rappresenta un’eccezione avendo intrapreso i primi passi per affrontare il tema e mettere un freno alla piaga della schiavitù moderna.  Ciò nonostante l’Italia, uno dei paesi più avanti dal punto di vista normativo sulla tutela dei prodotti opera degli schiavisti moderni, solo nel 2016 ha acquistato circa 7 miliardi di dollari di prodotti a rischio schiavitù.

Quello della schiavitù è un problema che riguarda da vicino anche i bambini: uno studio recente parla di almeno cinque milioni di bambini ridotti in schiavitù in tutto il mondo (anche in paesi come il Regno Unito). Vengono sfruttati  in lavori duri e potenzialmente nocivi per la loro salute, coinvolti nel mondo della prostituzione minorile o della pedopornografia, inseriti nel  traffico e spaccio di stupefacenti o nei conflitti armati come soldati o come scudi.

Secondo lo studio, i settori economici che contribuiscono di più con le loro entrate a questo stato di cose sono l’alta tecnologia ( smartphones, laptop e computer per un valore di 200,1 miliardi di dollari), l’bbigliamento (per un valore di 127,7 miliardi di dollari), la pesca per un valore di 12,9 miliardi di dollari e poi il cacao per un valore di 3,6 miliardi di dollari e molti altri.

Ad esempio, secondo gli esperti dell’indice di schiavitù globale 2018 ogni anno l’Australia importa oltre 4 miliardi di dollari americani di vestiti e accessori a rischio di essere viziati dalla schiavitù moderna. Secondo il rapporto, prodotto dalla Fondazione Walk Free, “i nostri indumenti a rischio sono importati da Cina, India, Vietnam, Tailandia, Malesia, Brasile e Argentina.”

“Complessivamente, l’Australia importa $12 miliardi di merci a rischio di schiavitù nelle loro catene di approvvigionamento. È ovunque dal nostro scaffali dei supermercati e per i capi che compriamo “, dice Grace Forrest, fondatore direttore di Walk Free. “È assolutamente inaccettabile e mette in evidenza il fatto che ognuno di noi, consapevolmente o meno, sta contribuendo alla prosecuzione di questo crimine”.

C.Alessandro Mauceri

 

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