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Palermo: al parco Uditore piantumazione in memoria di Giammatteo Sole

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Parco Uditore, circa 9 ettari di terreno che insistono sul Fondo Uditore, un tempo nascondiglio circondato da mura che celavano la latitanza del mafioso Totò Riina. Oggi in gestione ad un’associazione di giovani volontari, nata da un comitato cittadino, che svolge diverse attività di interesse sociale. Non ultime quelle didattiche, atte a formare i giovani su temi sociali. E’ stato questo il sito scelto lo scorso sabato, giorno di San Matteo, per piantumare un albero di melograno simbolo di rinascita, in memoria di Giammateo Sole, vittima di mafia.

Presenti sul posto diversi cittadini attivi nella diffusione della legalità, alcuni membri di Agende Rosse Palermo, così come diversi superstiti delle vittime di mafia. Dai coniugi Agostino, genitori di Nino che insieme alla moglie Ida venne ucciso davanti allo sguardo paterno, proprio sull’uscio della casa a mare; Antonio Vullo, unico componente sopravvissuto della scorta del Giudice Borsellino nella strage di Via D’Amelio. Presenti anche Caterina Sgroi, Giuseppe Rizzo, Fabiana Monteleone, Carmelo Crisafulli e Giuseppe Di Bona. Tutti raccolti in quel luogo, disposti in cerchio come a legarsi vicendevolmente in un reciproco sostegno contro un dolore condiviso.

Risalta subito l’espressione di Massimo Sole, fratello della Giammatteo, un volto che comunica un’inaspettata serenità. Di chi non ha trovato la pace nel rassegnarsi a quanto accaduto, ma di chi la cerca e la trova nei piccoli fatti di ogni giorno. Un lavoro interiore continuo, una serenità guadagnata su ogni metro percorso nella vita.

“Giammatteo Sole – così recita la prima frase incisa nella targa apposta al fusto del melograno – giovane virgulto reciso da mano mafiosa…”. Un lavoratore che nulla aveva a che fare con la mafia. Vittima innocente, Sole era amante della famiglia, una famiglia felice, una famiglia quasi come quella del “Mulino Bianco” – come l’ha descritta il fratello Massimo – una famiglia normale in cui i figli erano entrati a far parte di una comitiva di amici che si riuniva in zona Villa Tasca, quartiere palermitano. In quel contesto Floriana, sorella di Giammatteo, conosce Marcello Grado con cui inizia una frequentazione.

Il 22 marzo del ’95, mentre sta tornando a casa dopo il lavoro, Giammatteo viene fermato da due uomini che si fingono poliziotti, viene portato via, sequestrato, torturato ed ucciso. Il cadavere verrà bruciato. La famiglia apprenderà notizie del loro congiunto attraverso una radio che annuncia il ritrovamento di un’automobile bruciata nei pressi di Carini, un paese in provincia di Palermo, molto vicino alla città. Dopo pochi giorni viene effettuato il riconoscimento del cadavere grazie anche ad una fibbietta d’orologio ed un bottone di un jeans, i pochi elementi identificabili di ciò che è rimasto di Giammatteo – come raccontato dalla voce del fratello Massimo.

I familiari cadono nel panico, il dolore e la confusione per ciò che era accaduto stravolgono il quotidiano di quella casa. Le indagini, inizialmente volte a comprendere lo stile di vita della famiglia ed i suoi eventuali legami con ambienti malavitosi non portano a nulla. La famiglia Sole è una famiglia per bene.

Le giornate diventano muri da scalare. Comprensibilmente sconvolti, i Sole temono per loro stessi. Il vissuto drammatico dei genitori, in quei giorni, segna i fratelli superstiti mentre assistono impotenti alla disperazione di un padre ed una madre che non conoscono il motivo per cui il loro Giammatteo sia stato ucciso senza pietà.

La mitigante rassegnazione non giunge in casa Sole. Ha raccontato Massimo: “Nessuna consolazione, per quanto vana, come quella parziale di coloro che conoscono l’incidente, l’evento sfortunato che ha causato la morte di un loro caro”. Solo disperazione e dolore pervadono quella che era una famiglia felice. Dopo qualche anno, ancora una volta attraverso i media, i Sole vengono a conoscenza di alcune dichiarazioni di pentiti che furono autori di omicidi nel ’95. Uno dei due falsi agenti coinvolti nella morte di Giammatteo era Gaspare Spatuzza, ora collaboratore di giustizia: sarà lui a raccontare le fasi dell’omicidio, e di come il giovane geometra appena 23 enne, all’inizio del sequestro non si rese nemmeno conto di quale sorte lo attendesse. Giammatteo si fidava del valore ideologico di quella divisa che celava la vera natura dei killer. Riferisce Spatuzza durante la sua testimonianza: “rideva alle nostre domande, era un’animella”, proprio a risaltare l’estraneità di Giammateo a quell’ambiente criminale, a quel gergo, a quel modus operandi.

Siamo nel periodo post stragista del ’92 e del ’93, anno in cui Riina viene arrestato. Sole venne ucciso perché il clan dei corleonesi tentò di estorcere informazioni su un possibile rapimento del figlio di Totò Riina. Informazioni inesistenti. Il rapimento lo si temeva da parte dello schieramento palermitano contrapposto di cui faceva parte il mafioso Gaetano Grado (arrestato nel 1989). Il figlio di Gaetano, Marcello, che frequentava in quel periodo la sorella di Giammatteo, era il legame che portò i killer ad agire. Tutti i giovani facevano parte di una comitiva che si incontrava in zona Villa Tasca, nessuno conosceva l’appartenenza ad ambienti mafiosi dei Grado, così come dichiarò in seguito anche il fratello di Giammatteo. Nessuno di quei ragazzi poteva immaginare, nessuno di quei giovani aveva alcuna colpa o poteva essere causa di quanto successivamente accadde. Marcello fu ucciso alcuni giorni prima di Sole, forse nel tentativo vano di ottenere quelle stesse informazioni chieste a Giammateo, sul possibile rapimento Riina.

Un periodo atroce quello siciliano che va degli anni ‘80 e ’90 in cui centinaia di famiglie vittime di omicidi sono rimaste costrette in un limbo di dolore che non si concluderà mai.

Il ’95 era l’anno in cui, proprio pochi mesi dopo l’omicidio Sole, venne arrestato Leoluca Bagarella, fautore di una violenta lotta armata a Palermo, durante l’ascesa dei corleonesi. Nei mesi successivi vennero arrestati tanti altri uomini che tra loro si appellavano come uomini “d’onore”. Diversi, una volta in manette, divennero collaboratori di giustizia.

E’ noto che un magistrato nella sua veste istituzionale deve comprensibilmente limitarsi ad analizzare, valutare l’attendibilità dei fatti e la loro valenza giudiziaria; al contrario il cittadino può chiedersi, dal punto di visto morale, come vada intesa la collaborazione di persone che hanno compiuto svariati omicidi su commissione. Al popolo rimane sempre la possibilità di valutare anche altri aspetti, di distinguere la figura del collaboratore di giustizia da colui che si possa definire pentito.

Alla famiglia Sole, invece, oggi rimane la possibilità di mantenere la “memoria viva” di Giammatteo, attraverso le testimonianze ai giovani, nella speranza che il sacrificio di una vita innocente possa servire da monito per una società che abbia più considerazione il valore della vita, e meno quello del potere e del denaro.

Vi potrà capitare di vedere spesso, negli incontri aperti d’informazione e sensibilizzazione sulle giovani vittime di mafia, Massimo Sole insieme ai coniugi Domino, genitori del piccolo Claudio, anche lui vittima di mafia a soli 11 anni, anche lui vittima innocente. Hanno deciso di “scendere in campo” tutti insieme per diffondere la consapevolezza del rischio sociale a causa della criminalità organizzata, dell’agire anche solo con mentalità mafiosa nelle piccole vicende del quotidiano.

Sarebbe opportuno non dimenticare che cosa a ciascun cittadino è stato strappato per ogni vita spezzata da mano criminale: quali invenzioni, quali benefici, quali insegnamenti, quale contributo quella vittima avrebbe potuto darci, ed invece ci è stato negato? Forse così affronteremo correttamente e rispettosamente il dolore delle vittime di mafia, defunte e superstiti. Sì, perché i congiunti che rimangono in vita sono di fatto vittime anche loro. Queste sono le riflessioni a cui, senza sosta, i superstiti ci invitano.

Quasi ogni giorno, i familiari delle vittime ci ricordano, condividendo il loro grande dolore, che la mafia non rispetta bambini, né donne, né preti, né ogni altra distinzione possibile tra gli uomini. La mafia ha colpito chiunque indiscriminatamente fin dalle sue origini. Celata da una parvenza di protettorato del popolo dalla prevaricazione dei potenti, fin dalla seconda metà dell’800, ha curato in realtà sempre i propri interessi, a spese della società tutta. Alimentata da ignoranza, fame e miseria, la mafia ha fatto delle persone più deboli veri strumenti di distruzione, dispensatori di dolore anche nelle loro stesse famiglie. Come un cancro, la mafia ha tentato e tenta di insinuarsi nel tessuto sociale, prima con azioni di forza dei gruppi armati più feroci, ed oggi (forse in modo ancor più pericoloso e subdolo) cercando di infiltrarsi nelle amministrazioni pubbliche. Dove non vediamo sangue è più difficile vedere il pericolo, ma c’è, è reale e presente tra noi.

Mauro Faso

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