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la Corte di Giustizia Europea Condanna Italia per le acque

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Per chi non avesse ancora capito come funzionano la pubblica amministrazione e la politica in Italia, ecco un esempio. Dopo mesi e mesi di contestazioni valse a niente, la Corte di Giustizia Europea ha deciso di  multare l’Italia per 500 milioni. Non una tantum ma fino a quando non si deciderà di fare qualcosa di concreto per ottemperare a quanto previsto da regolamenti e direttive comunitarie. Causa della salatissima multa la cattiva applicazione della direttiva relativa al trattamento delle acque reflue. L’Europa ha deciso di appioppare questa multa salatissima all’Italia per i “gravi ritardi nel rispetto della direttiva comunitaria che prevede da oltre dieci anni la messa a norma dei sistemi fognari e depurativi” ha detto Mauro Grassi, responsabile della Struttura di Palazzo Chigi #italiasicura. La prima direttiva europea che imponeva all’Italia di restituire all’ambiente acqua pulita risale infatti al 1991. Per otto anni è stata quasi ignorata. Nel 2000 una nuova direttiva ha imposto ai vari paesi di agire entro il 2015 per garantire la qualità delle acque. E dopo i richiami e i solleciti sono arrivate le multe. Per questo, sebbene Renzi nella presentazione a colpi di emoticon non abbia detto una parola a riguardo, il governo ha inserito questa somma nella Legge di Stabilità (comma 813), e ha autorizzato il ministero dell’Economia e delle finanze a rivalersi sulle amministrazioni locali responsabili delle violazioni. A pagare questa somma quindi non sarà il governo centrale, ma i comuni, che vista la condizione in cui versano, non potranno che rivalersi sugli “ignari cittadini che saranno costretti a pagare queste multe con l’aumento dei tributi locali”, come ha affermato il segretario di Radicali Italiani Riccardo Magi. Che la situazione delle condotte idriche in Italia non è delle più rosee non è una novità da anni si ripete che sui sistemi fognari e depurativi esistono enormi problemi. Uno stato di degrado che non riguarda solo pochi comuni: secondo la Corte di Giustizia Europea a violare le norme comunitarie sarebbero oltre 2.500 comuni. Delle principali procedure d’infrazione, la 2004/2034, la 2009/2034 e la 2014/2059, sulla prima (relativa agli obblighi di predisposizione dei sistemi di raccolta e dei sistemi di trattamento in ben 110 agglomerati) la Corte di Giustizia europea si era espressa già nel 2012. Eppure, da allora, nessuno dei tre governi che si sono succeduti ha fatto niente. Quanto alla seconda (relativa agli obblighi di predisposizione dei sistemi di raccolta e dei sistemi di trattamento in 41 siti) la Corte di Giustizia si era espressa ad aprile 2014, poco dopo la nomina a capo del governo del nuovo che avanza. Peccato che, in quasi due anni, il “governo del fare” pare sia riuscito a fare granchè. Così come non ha fatto molto per far rispettare l’ultima procedura di infrazione, che riguarda ben 883 agglomerati urbani e 55 aree sensibili, che è stata avviata anche questa all’inizio del 2014, a seguito delle ispezioni EU Pilot 1976/11/ENVI. Il fatto è che quello del trattamento delle acque non è un problema locale: riguarda tutto il territorio nazionale. Come ha detto Giovanni Valotti, presidente Utilitalia, la federazione che riunisce tutti i gestori del servizio idrico, ha detto che “serve un Piano Idrico Nazionale, un piano straordinario per la qualità delle infrastrutture e dei servizi pubblici che metta a sistema tutti gli attori e le risorse disponibili”. Siti in violazione delle norme comunitarie infatti si trovano praticamente in tutte le regioni d’Italia. Dove, però, la situazione è più grave è nel Mezzogiorno e ancora di più in Sicilia, dove ad essere sotto accusa è praticamente tutto il territorio regionale, da Agrigento a Bivona, da Caltabellotta a Casteltermini, da Cattolica Eraclea a Lampedusa, da Menfi a Montevago, da Palma di Montechiaro a Porto Empedocle, da Ribera a Sambuca di Sicilia, da Sciacca a Campofranco, da Niscemi a Catania, da Giarre a Milo, da Randazzo a Vizzini, da Enna a Piazza Armerina, da Capo d’Orlando a Gioiosa Marea, da Lipari-Vulcano a Messina, da Milazzo a Patti, da Giardini-Naxos a Bagheria, da Carini e Asi Palermo a Cefalù, da Corleone a Monreale, da Piana degli Albanesi a Prizzi, da Termini Imerese a Ustica, da Ragusa a Noto, da Castellammare del Golfo a Erice, da Marsala a Mazara del Vallo, da Pantelleria a San Vito Lo Capo, solo per citarne alcuni. Lo stato della realizzazione degli interventi è stato denunciato anche dal capo dell’Unità di missione per il contrasto al dissesto idrogeologico Mauro Grassi, che ha sottolineato come questi ritardi “portano contemporaneamente inquinamento, lavori fermi e, come si vede, sanzioni”. “La responsabilità di questo disastro è degli enti locali, per questo quando arriveranno le multe presenteremo esposti alla Corte dei conti per danno erariale, perché a pagare non siano i cittadini” ha detto, senza mezzi termini, Magi. Nonostante negli ultimi 15 anni siano stati stanziati 3,5 miliardi, l’Authority calcola che solo il 55% delle opere necessarie e pianificate è stato realizzato. Il servizio idrico, prima gestito dai comuni e poi dagli Ato, gli ambiti territoriali ottimali in cui sono divise per legge le Regioni, hanno fatto molto poco e certamente meno di quanto era necessario. Ma ad essere coinvolto è anche lo stato che deve stanziare ed erogare finanziamenti statali per le opere straordinarie. In pratica non c’è provincia, comune o impianto in Sicilia che non risulti, per un motivo o per l’altro, irregolare e che non lasci a bocca aperta per il modo di non fare di chi ha amministrato la “cosa comune”. A tutti i livelli. A non riuscire a fare niente non è stato solo il governo, ma anche  la Regione (di 1,6 miliardi di euro stanziati dalla Delibera CIPE 60/2012 con l’obiettivo di superare le infrazioni europee, 1,1 miliardi di euro sono destinati alla Regione Siciliana), le Provincie e i Comuni interessati. Come ha detto Grasso “le Regioni che presentano il maggior numero di situazioni di infrazione comunitaria sulle fognature e sulla depurazione sono quelle che non hanno attuato la riforma della governance del settore idrico”. “Prova tangibile della incapacità di spesa, pur in presenza di risorse – conclude Grassi – sono i 3,2 miliardi di euro (2,8 miliardi di euro solo per il sud) stanziati per quasi 900 opere tra depuratori, fognature e acquedotti, che non sono ancora stati nemmeno avviati a gara”. Inspiegabile, visto tutto questo, il ritardo di molte amministrazioni regionali di aderire ai protocolli dei Contratti di Fiume (che nei giorni scorsi hanno siglato un protocollo  d’intesa anche con Codacons) che potrebbero essere lo strumento ideale per superare l’empasse e risolvere il problema delle  acque reflue.

di        C.Alessandro Mauceri

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