Chiunque ha sentito almeno una volta bambini, anche molto piccoli, appena sopra i due anni, raccontare di ricordi vividi ed eventi accaduti settimane o mesi prima. Tuttavia, con il passare del tempo, la maggior parte di questi ricordi si dissolve e, da adulti, ne conserviamo pochissimi, se non addirittura nessuno (Focus).
La perdita dei nostri ricordi d’infanzia è un fenomeno che tendiamo ad accettare così com’è, lo subiamo con un certo senso di fascino e malinconia. C’è fortunatamente chi si interroga sull’argomento dal punto di vista scientifico, analizzando come e perché la mente umana conservi o dimentichi le esperienze (Danilo Di Diodoro, Corriere della Sera). Spesso si ritiene che i ricordi dei primissimi anni siano una ricostruzione indotta da “indizi” sopravvissuti al tempo, e che solo intorno ai sette anni la memoria sia abbastanza sviluppata da assorbire e memorizzare le esperienze.
La rivista Science non molto tempo fa, ha pubblicato un interessante approfondimento scientifico sul tema. Uno degli aspetti più intriganti per l’appunto, è la possibilità che i ricordi dei primi anni non siano effettivamente perduti per sempre ma che, una sorta “interruttore della memoria” durante le prime fasi dello sviluppo impedisca quel normale processo di formazione, “salvataggio” e recupero dati. Il ruolo di questi “interruttori” della memoria non è ancora del tutto chiaro, non sembra sia quello di liberare spazio per nuovi ricordi, dato che il cervello ha la capacità di immagazzinare molte più informazioni di quante effettivamente trattenga nell’ippocampo, area del cervello essenziale per la memoria.
Per approfondire se i ricordi “dimenticati” siano semplicemente inaccessibili, Paul Frankland, (neurobiologo dell’Hospital for Sick Children dell’Università di Toronto), ha coordinato uno studio sui topi neonati utilizzando una tecnica che permette di attivare o disattivare selettivamente le cellule attraverso un raggio di luce (optogenetica). Ricerche come questa potrebbero aprire la strada alla riattivazione di ricordi che ad oggi ci sembrano inaccessibili, con potenziali applicazioni per contrastare le prime perdite di memoria legate all’insorgere di alcune forme di demenza.
di Marika Prudenzano