A volte il cinema ci propone storie risapute, quasi dall’inizio alla fine (la variabile sta nel grado di semplificazione che s’insinua negli snodi della sceneggiatura), ma non per questo meno appassionanti. Chiaramente per fruirne in maniera piacevole bisogna essere dell’umore giusto, non pretendere la meraviglia ma solo l’intrattenimento. Southpaw (il titolo fa riferimento all’essere mancino del pugile protagonista) rientra pacificamente nella categoria, affidandosi a svolte annunciate, dialoghi prevedibili (o addirittura elementari), recitazione di routine, nonostante la grande prova fisica di un pressoché irriconoscibile e decisamente irrobustito (soprattutto per chi se lo ricorda nel precedente Lo sciacallo) Jake Gyllenhaal, forse il principale motivo per scegliere il film. Egli incarna Billy Hope (la “speranza” già contenuta nel nome è probabilmente l’indizio eloquente del didascalismo sfoggiato dal lungometraggio), boxeur imbattuto nei pesi medio-massimi, di umilissima estrazione e sorretto dall’amore della premurosa moglie – orfana come lui – Maureen (Rachel McAdams, assai idonea al ruolo), che guarda con crescente preoccupazione ai sempre più evidenti rintronamenti dell’uomo alla fine di ogni incontro, e della figlioletta Leila (Oona Laurence). L’impressionante ricchezza che lo sportivo ha accumulato, però, si sgretola facilmente, e una tragedia familiare dietro l’angolo (per l’appunto un po’ forzosa all’interno della trama) rischia di far perdere al campione – messo in ulteriore difficoltà dai propri insopprimibili impulsi caratteriali – la custodia della sua bambina.
Il modello narrativo non è dunque ricercato e s’impernia piuttosto apertamente sulle spesso lacrimose pietre miliari del ring in pellicola, fondate sul riscatto personale quando non sul regolamento di conti. C’è perfino un “nobile” allenatore (Forest Whitaker, misurato dopo tanto tempo) che raccoglie Billy e lo aiuta a ricominciare daccapo. È materiale classicheggiante, insomma, maneggiato con sufficiente cura per non scivolare rovinosamente verso la stucchevolezza. Onore al merito, in tal senso, al regista Antoine Fuqua, rimasto famoso – ingiustamente – solo per Training Day, uno che, tendendo a debordare, raramente ottiene gli equilibri richiesti dalle storie che racconta: gli è successo, per esempio, con il sottostimato Shooter, o con quel piccolo gioiello suburbano che è Brooklyn’s Finest (paradossalmente l’unica sua opera a non essere mai stata distribuita per il grande schermo in Italia). Adesso sta girando il remake de I magnifici sette, cioè un western (ormai “specie protetta”); speriamo bene…
Southpaw – L’ultima sfida (Southpaw, USA, 2015) di Antoine Fuqua con Jake Gyllenhaal, Forest Whitaker, Rachel McAdams, 50 Cent, Naomie Harris
di Massimo Arciresi