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Dalle storie di mafia alla storia di Mafia, il videogioco

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Noi de L’Ora – Il più antico giornale d’Italia, citando Rai Scuola siamo anche «il primo giornale che ha parlato di mafia», dalla fondazione nel XX secolo e poi con la nascita del giornalismo antimafia degli anni Cinquanta e sin tutti i decenni successivi, sotto varie forme (dall’edizione cartacea a quella digitale), passando per periodi di piena ad altri di magra, non ci siamo mai fermati nel descrivere il mondo mentre tutto attorno a noi si stravolgeva. Mentre Cosa nostra trasfigurava e di come la mafia venisse pubblicamente taciuta, informalmente trattata e poi pubblicamente dichiarata e  rappresentata: passando dal vociare dei quartieri; dai non detti delle campagne alle rappresentazioni di strada urbane, al teatro e poi via con i saggi, ai romanzi, alle inchieste sociologiche, poliziesche, parlamentari e giudiziarie, quindi a scalare con i lungometraggi internazionali e italiani per poi arrivare fin qui, addirittura a oggi, per la prima volta in assoluto, nel riflettere sull’ultimo trovato tecnologico, commerciale e mediale com’è il videogioco e di come questo tratti di mafia.

Perché se la chiave della lettura è l’immaginazione mentale dei fatti impressi con l’inchiostro nella cellulosa per poi passare all’ingaggiante ma passiva audiovisione su pellicola, il videogame è l’unico strumento che prevede un’almeno minima interattività da parte dell’utente che, però, essendo appunto anche agente, è necessariamente definibile come giocatore delle vicende a schermo e pertanto autore e attore al contempo di pressoché ogni azione compiuta dall’alter ego virtuale: così raggiungendo una forza narrativa, personalizzante ed emotiva quasi senza eguali.

È da queste basi e per intere pagine su pagine, che l’Autore Dott. Luca Federici nella sua opera aggiornata nell’innovativa concezione di intendere il libro Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente non in «edizione» bensì a «sistema», torna ad ampliare e dettagliare lo scenario mafioso attraverso l’ultimo medium creato quale è l’arte del videogioco.

Dalla lettura del capitolo, integrata nella monografia sull’associazionismo mafioso siciliano, emerge letteralmente un nuovo scorcio critico, riflessivo, letterario, culturale, giuridico, narrativo, intrattenente, artistico e intellettuale di quanto ci sia di vero nella finzione e quanto, talora e precisamente nelle storie di mafia, la finzione venga invece superata dalla realtà. Perché se certi scorci su bit si sono già visti anche in altre rappresentazioni, alcuni ne sono inediti e comunque inspessiti da quel carattere di interattività di cui ne è portatore solo il videogioco. Perché compiendo quelle scelte, premendo il grilletto digitale e vivendo le avventure malavitose del protagonista, noi saremo anche lui e lui, in fondo, sarà parte di noi in uno strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde.

La lettura del saggio, è un lungo cammino che parte dalle basi storico-culturali di un’Italia neppure unita e in grado di riflettere sulle causalità, sulle casualità e sulle conseguenze che si sono unite, scontrate e susseguite e in grado di rendere la mafia in generale e Cosa nostra nello specifico non soltanto la prima forma di criminalità associativa culturalmente nobiliare e poi borghese, ma anche la più stravolgente, avvolgente e longeva malavita della storia. Un’associazione a delinquere unica, la sola in grado di compiere i centosettanta anni d’esistenza. La dissertazione poi prosegue in una seconda parte altrettanto sostanziosa per quanto atipica, dove lo scrittore si sofferma con attenzione verticale e comparatistica tra le più importanti opere della letteratura italiana per poi, appunto, inaugurare quel che può definirsi un vero e proprio nuovo filone di studi mai prima d’ora battuto. Perché, oltre la portata in sé, è l’assenza di lavori simili che rendono il capitolo riespanso dal titolo «La mafia nel nuovo medium: il videogame» una pietra miliare nella conoscenza della mafia e dell’annessa importanza comunicativa.

A pensarci bene, soltanto un’ibrida professionalità con un curriculum intrecciante pregressi di studio, di lavoro e di passioni nella giurisprudenza, nella letteratura, nella storia, nella comunicazione, nel videogioco e con un coraggio antesignano poteva avanzare un’interpretazione così profonda e approfondita su di una duplice questione culturale: quella (anti-)mafiosa e quella sui “giochi elettronici” come anche mezzo di istruzione. Non è pertanto un caso che questo aggiornamento venga rilasciato esattamente al lancio del colossal videoludico Mafia: Definitive Edition.

Ed è con piacere che concludiamo la nostra valutazione lasciando la parola allo Scrittore, pubblicando un esclusivo estratto del testo commentato. Da ora in avanti la lettura è espressamente consigliata, a causa di spoiler, soltanto a chi ha portato a termine tutta la saga di Mafia, in particolare ma non soltanto, del secondo esponente del brand che ha appena festeggiato il decimo anniversario dal day one.

Mafia II

In detto gioco si creeranno situazioni e dialoghi in grado di strizzare l’occhio non solo al folklore di Cosa nostra ma anche su fini sottigliezze tipicamente malavitose, peculiarmente riprese dal vivaio cinematografico anglosassone. Volendo essere generosi e in parte contraddicendo quanto iscritto in incipit: se stessimo parlando di un’opera ludica quale “semplice” videogame e così lo guardassimo, esso sarebbe più che soddisfacente, ma prospetticamente inquadrato nell’ottica di erudizione sulla tematica, ha la sola sufficienza. Esso rimane consigliato per chi, oltre a gustarsi una storia pad alla mano, desidera affinare le conoscenze, coerenze e incoerenze sulla cultura mafiosa cui è intriso il gioco. Perché talune rappresentazioni o avvenimenti risultano assolutamente riusciti ed eloquenti, ma altre stonano o si limitano a essere (s)piacevoli luoghi comuni sulla “mafiosità”.

Il protagonista, seppur purosangue italiano e, ancor più siciliano, sembra essere un po’ troppo sprovveduto nel relazionarsi e intendere le dinamiche ed esternazioni degli uomini d’onore: caratteristiche più da brianzolo che ne accorto “compaesano”.

Le decisioni dei boss, poi, sembrano talora prese d’impeto anziché frutto di piani meditati e calcolati al milligrammo: trasmettendo eccessiva improvvisazione. Si capisce, però, di come questi siano espedienti utili ai fini della narrazione e del divertimento.

Forse gli sviluppatori avrebbero potuto proporre, nei tempi di caricamento, descrizioni e citazioni sulla mafia più calzanti.

Infine, mafiosi, mafiosetti e veri e propri boss paiono oltremodo loquaci nell’esternare i loro ingombranti segreti, tanto da suscitare più di una perplessità. In definitiva Mafia II rimane all’ombra di quel che fu la sua precedente incarnazione: il che non vuol dire, comunque, che dall’ombra non vi si possa trarre anche del beneficio.

In Mafia II, da principio uscito su PC; Xbox 360 e PlayStation 3 e annoverante i DLC The betrayal of Jimmy; La vendetta di Jimmy e Le avventure di Joe, si incarnerà Vittorio Antonio Scaletta, per tutti Vito, quale esponente paradigmatico della classica famiglia italiana degli anni Trenta del XX secolo in grado di trovare le forze della speranza solo nell’emigrazione verso i fantasmagorici Stati Uniti d’America, quale ultimo ed estremo rimedio all’indigenza peninsulare del periodo.

Gli USA e il relativo «Sogno», però, paiono più un’empiria illusione che una verosimile se non addirittura realistica possibilità intraprendibile. La famiglia del nostro è disastrata; il quartiere è esattamente l’iconico immaginario della Little Italy ghettizzata; la crisi, ancora in strascico del 1929; le frequentazioni, sono quelle derelitte, su tutte quella col grande amico Joseph  (Joe) Barbaro, uno dei personaggi centrali per il dipanamento della vicenda principale nonché improbabile compagno di (s)venture dello Scaletta che, eccolo, viene acciuffato dalla polizia e mandato in guerra – come pena alternativa – sul fronte Occidentale. Ritornando così in quella stupendamente maledetta terra natia proprio per intraprendere la celebre operazione Husky quale sbarco in Sicilia per la liberazione dai nazifascisti.

Qui, nel Capitolo 1, denominato Il Vecchio Paese, proprio agli inizi delle fasi di gameplay, si consuma una strabiliante, più unica che rara scena, in grado di valere il gioco. Appare infatti il boss del paesello in corso di liberazione Alleata che, “armato” di solo megafono, “invita” (intima) gli irriducibili renitenti fascisti ad abbandonare le armi cosicché vi possa essere il minor spargimento di sangue possibile, ovverosia il più sensato degli esiti tramite accordo di resa evitante un’altrimenti inutile mattanza fratricida, in particolare da, tra e fra i suoi stessi popolani. Orbene quello non è un personaggio solamente ispirato a un boss mafioso realmente esistito, come altre volte accade nel videogame, egli è proprio «Don Calò», al secolo Calogero Vizzini: apice indiscusso di Cosa nostra nel dopoguerra; sindaco di Villalba e tra l’altro proprio interlocutore con gli alti generali militari dell’epoca come il potente Giuseppe Castellano, lo stesso che nientepopodimeno firmò l’armistizio del 1943 per l’esercito italiano.

Così, proprio a un passo dalla morte di Vito prossimo alla fucilazione per mano dei fascisti, ha salva la vita concludendo la campagna sicula e, con essa, anche il conflitto armato nell’isola. Perché nella Storia, quella con la s maiuscola e che si studia nei libri, accadde qualcosa di molto simile, ovverosia un accordo Alleati-Cosa nostra che pose nelle mani dei capibastone delle terre conquistate, il controllo territoriale tra cui quello di interi villaggi: Cosa nostra, del resto, sempre, prima di sparare, “dialoga”. “Invita”. “Compra”. Solo infine, quando totalmente impossibilitata, uccide. Mood ben diverso da qualsisia GTA.

Per definizione una scena così come supra descritta e mostrata nel videogioco è da escludere sia mai accaduta nella realtà: i contatti mafia-Alleati furono pregnanti in USA per evitare attentati nei porti statunitensi a opera della comunità italiana, dapprima massimamente simpatizzante con i nazifascisti; in Sicilia la pax si sarebbe costituita per la maggiore soltanto una volta liberata l’isola.

Vito, ferito, nel 1945 è rimandato negli States, nella sua cara e immaginifica Empire Bay: città in forte sviluppo, con oltre 7 milioni di abitanti. C’è subito il primo problema: la guerra è ancora in corso e lo Scaletta potrebbe presto tornare al fronte, se non fosse che i giusti contatti oliati con dei verdoni messi a disposizione da Joe, gli concedono un salvacondotto sine die. Se si sapesse che la leva militare obbligatoria nel Mezzogiorno contribuì a dare vita a quel fenomeno denominato brigantaggio, si capirebbe quanto questi “favori” siano imprescindibili e di come la cultura mafiosa li abbia sempre garantiti. In Italia, per interi decenni, del resto, fu una delle pratiche quotidianamente più “richieste” dal “popolino” a cospetto dei potentati locali.

In questo clima prende corpo il primo troncone del gioco: in un’atmosfera invernale, grigia, fredda e scivolosa ma nella quale Vito si trova a proprio agio sia nel portare a termine le prime missioni, sia nel risolvere alcuni problemi di “famiglia” e, proprio quando sembra di poter svoltare con l’affiliazione, ecco che lo pizzicheranno nuovamente con le mani nella marmellata. Finisce quindi condannato a dieci di reclusione: tipico dell’esemplarità americana.

Tremilaseicentocinquantadue giorni sono davvero tanta, troppa, roba. Il giovane riuscirà pertanto a farsi notare e quindi a conoscere l’ingombrante ma focale personaggio di Leo Galante che porgerà la propria ala protettiva da padre-padrino-padrone per i lunghi anni da scontare dietro le sbarre. Il Galante è uno dei membri più influenti della Commissione.

Qui il gioco, pescando a piene mani dalla pellicola Le ali della libertà, fa un altro centro culturale: perché riesce a descrivere visceralmente l’imbruttimento delle carceri laddove siano intese come cloaca sociale. A luoghi in cui, contrariamente a quanto prescritto pure dalla nostra Costituzione puntante alla rieducazione del reo, i detenuti invece di emendarsi si imbestialiscono, trasformandosi in esseri peggiori rispetto persino alle persone cui erano entrate. Esemplare n’è proprio Vito che da “ominicchio” del sistema criminale di inizio game si principia nella strada di uomo d’onore: questo proprio “grazie” a quel “bell’ambiente” delle prigioni. Per dare il senso di quel che si respirerà in queste fasi di gioco, si lasci la parola proprio al protagonista: «Quella sarebbe stata la mia casa per dieci anni: una merda che puzzava di piscio. Avrei preferito evitare pallottole in Europa».

Uscito dalla reclusione sei anni dopo e quindi con un bello sconticino di pena, Vito si accorgerà dello splendore degli anni Cinquanta del Novecento e per lui inizierà subito una nuova vita, ma neppure troppo diversa. Una quotidianità di crimini che lo porteranno infine ufficialmente ad affiliarsi a una delle tre famiglie malavitose che imperano nella floreale città di Empire Bay. Quest’ultima scena risulta accuratamente confezionata: il giuramento può pertanto definirsi fedele a quelli tradizionalmente sussistenti nella realtà, con tanto di tavolata elegantemente composta dagli alti membri delle famiglie; la “punciuta” con sangue gocciolante sul santino poi dato alle fiamme e passato tra le mani dell’iniziato con mantra proferito ad alta voce e bacio finale tra gli astanti.

Come nel capostipite, Mafia II trova nel dipanamento della propria storyline la direzione più riuscita ma, differentemente da questo, non necessariamente vincente di tutta l’impalcatura. Gli sviluppatori imbastiscono una narrazione soltanto a tratti ficcante, essendo priva di dilemmi realmente umani, struggenti e incresciosi come nell’originale. Fatta eccezione per la missione per antonomasia, pur realizzata con forzature, di quella cioè ove Vito e Joe eliminano platealmente il divenuto collaboratore di giustizia Tommy Angelo, l’indimenticabile protagonista del primo Mafia.

Vito Scaletta: «Thomas Angelo?»

Tommy Angelo: «Uhm… Sì?»

Vito Scaletta: «Il signor Salieri le manda i suoi saluti.»

BOOM

[…]

Domani è un altro giorno [Joe’s Adventures Trophy]

Di Barbaro, mafiosamente parlando nel discorso culturale intrapreso in quest’opera, non c’è molto da dire. Egli è certamente una colonna portante dell’intero titolo nonché uno dei personaggi più ben voluti dell’intera trilogia da parte dei player, con anche uno screen time impressionantemente generoso per un soggetto secondario, apparendo pressoché in tutti i frangenti capitolari del gioco.

Proprio per questo e nel modo in cui sparisce negli istanti finali di Mafia II che su di su lui v’è tuttora un dubbio: egli è davvero morto?

L’ending del titolo lascerebbe pochi margini di dubbio: Barbaro, prendendo quella biforcazione rispetto allo Scaletta, sarebbe stato immolato come agnello suggellante col di suo sangue sia la pace interna a Cosa nostra, sia quella con la Triade. Epperò in Mafia III durante un breve dialogo in cui Lincoln Clay ritorna dalle missioni di assassini commissionategli da Vito Scaletta, quest’ultimo proferirà «Oh, merda. Allora è finita sul serio. Porca puttana. Vuole dire solo che Joe è morto sul serio, era un mio amico, era un fratello. Volevamo diventare uomini fidati di uno stronzo di nome Leo Galante, un pezzo grosso della Commissione. Alla fine è andato tutto a puttane e ci hanno fottuti. Ecco che ti succede quando esegui gli ordini. Sono passati un paio di anni ma non sapevo se Joe fosse ancora vivo o altro. L’ho saputo quattro-cinque anni dopo essere arrivato qui [a New Bordeaux], avevo ancora un po’ di influenza laggiù [a Empire Bay] e ho tenuto le orecchie aperte: ho saputo che uno dei tizi [che era] in macchina con Joe era qua in giro. È uno che non regge l’alcol e l’hanno sentito parlare di uno spione che deve fare fuori per conto di Leo, lo stesso spione che gli ha rotto i denti e gli ha spaccato la faccia. Joe Barbaro non sarebbe mai caduto senza combattere: è riuscito quindi a scappare e si è dato alla fuga per un po’. È andato a Chicago per farsi aiutare da un paio di amici e invece quelli lo hanno fottuto. Lo sanno tutti com’è andata: l’hanno picchiato a sangue, gli hanno tagliato le mani e sfondato la faccia e quando hanno finito… Beh, non c’era rimasto molto da trovare. [Sono sicuro di questa dinamica, Joe è morto.] Se fosse ancora vivo, mi sarebbe venuto a cercare».

Stando alla ricostruzione di Vito (si noti peraltro il giudizio al fulmicotone verso Leo Galante: «Uno stronzo»), quindi, Joe sarebbe riuscito miracolosamente a evadere dalla morte certa del finale di Mafia II ma la sua sorte, se possibile, sarebbe stata persino peggiore di quanto non potesse altrimenti essere: dopo indicibili torture il suo corpo, distrutto, verrà fatto sparire (lupara bianca).

Proprio l’assenza del cadavere ha lievitato le speculazioni dei fan che lo vorrebbero apparire, per una somiglianza effettivamente di livello, come autista personale di Leo Galante nientemeno e proprio che in Mafia III. Circostanza cionondimeno difficilmente giustificabile nel contesto complessivo cui vengono prospettati i fatti.

«Or noi, che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non compiacere a noi stessi» [Lettera ai Romani 15:1-13].

[CONTINUA SU: Mafia e mafie: Cosa nostra e la dote vincente di Luca Federici]

CS – LF

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